La cultura della crisi influenza negativamente i nostri comportamenti.
“A forza di credere che il male passerà sto passando io e lui resta”
Queste sono le parole con cui inizia la canzone di Gianni Morandi intitolata “Apri tutte le porte“ presentata al Festival di Sanremo del 2022.
L’incipit si ricollega a molte frasi piene di speranza che ci diciamo quando le cose vanno male, confidando nel tempo come unica risorsa in grado di risolvere i problemi.
La sensazione è che viviamo in un’epoca storica in cui abbiamo introiettato la cultura della crisi, dove ci diciamo sempre che va tutto bene, e dove quel “tutto” è solo un modo pigro per non far partire una conversazione sulle proprie sofferenze.
Infatti, il dolore e la sofferenza fanno male soprattutto nel momento in cui vengono evocati, quindi il solo fatto di parlarne diventa un peso di cui non si vuole caricare né sé stessi né gli altri.
Fuga dalla sofferenza
Il mondo occidentale ha deformato il nostro rapporto con le emozioni negative come rabbia, paura e tristezza.
La rabbia e la paura fungono da leve nel mondo del lavoro, le quali, attivate con le opportune condizioni al contorno, riesco ad indurre le persone ad essere produttive. Infatti, si potrebbe dire che entrambe sono funzionali alla competizione (Vedi: Teoria del capro espiatorio).
La tristezza invece ci impone di rallentare, di “disattivarci”, per cui è completamente disfunzionale per il mondo occidentale (o se vogliamo, dove vige il sistema capitalistico), il quale richiede di essere sempre allegri e intraprendenti.
Quindi, questo tipo di società, per la sua struttura e per il suo scopo, risulta giudicante con chi prova e vive queste emozioni, esponendo ad un senso di esclusione che alimenta ulteriormente la paura.
Dunque, il rischio è che coloro che hanno qualche motivo per soffrire rifuggono questo passaggio, lo evitano, alimentando dentro di sé un fuoco che brucerà anche ciò che c’è fuori.
Perché la cultura della crisi è deleteria
Miguel Benasayag in “L’epoca delle passioni tristi” dice che il futuro è passato dall’essere una promessa all’essere una minaccia. Effettivamente, l’incertezza del futuro e la crisi economica senza fine hanno costituito un senso di allerta ormai percepito come normale.
La normalizzazione annebbia la coscienza, nel senso che ciò che si ritiene normale, in fondo, viene dato per scontato. Infatti, si sta dando per scontato che la sofferenza delle persone deve essere messa da parte a tempo indeterminato perché si deve trovare il modo di risolvere una crisi senza fine.
A leggerlo sembra assurdo, non trovate? Ha senso pensare a un mondo in cui la sofferenza nascosta sia normalizzata? La crisi non dà il tempo di fermarsi, perché si rischierebbe di affondare.
Il punto è che “A forza di credere che il male passerà, stiamo passando noi e lui resta”. Ergo: la cultura della crisi ci costringe a tenere i nostri mali per noi, sperando che sia solo il tempo a curarli. Il problema è che la promessa che il tempo ci ha fatto viene a mancare, per cui sta diventando sempre più concreta la minaccia di essere sostituiti dal nostro stesso male.
Crisi della politica
Un versante in cui la cultura della crisi è ben radicata è la situazione politica italiana. Da anni, i nostri politici sono impegnati continuamente a risolvere le “urgenze”, non avendo mai il tempo di attuare i loro programmi.
In questo caso, la gestione della crisi tradisce la promessa del programma, quindi i politici italiani diventano poco credibili. Il politico, cioè colui che dovrebbe avere la saggezza necessaria di riconoscere i problemi delle persone e risolverli, finisce per essere incapace di assolvere la sua funzione.
Il risultato è la sostituzione del politico con il tecnico. Il politico governa un popolo, il tecnico governa un apparato tecnico. Allora, i problemi delle persone, quindi le loro emozioni e sensazioni, passano in secondo piano.
L’obiettivo diventa così risolvere la crisi tecnica dell’apparato, molto spesso di natura economica. La risoluzione dei problemi delle persone passa ad essere un effetto collaterale.
Il sistema è talmente complesso che bisogna definire le priorità in funzione delle risorse disponibili, lasciando altre sofferenze irrisolte. Purtroppo, “A forza di credere che il male passerà, sto passando io e lui resta”.
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