• Autore dell'articolo:
  • Categoria dell'articolo:Blog
  • Ultima modifica dell'articolo:17 Settembre 2022

La produttività ogni anno ritorna come argomento di tendenza per le diverse testate giornalistiche e gli esponenti delle parti sociali sociali. Inoltre, esistono un’infinità di video di mental coach, esperti di marketing e psicologi del lavoro che ti spiegano “come essere più produttivi”. Questo perché il contesto sociale in cui viviamo privilegia e premia la predisposizione all’essere sempre attivi ed esalta le realtà che arrivano al “successo”. Essa conferisce maggiore rilevanza a coloro che hanno raggiunto un più elevato status sociale mediante il “lavoro produttivo”. Infatti, la produttività è diventata una forma normalizzata di attribuzione di significato, tanto da essere riconosciuta come valore universale. Dunque, essere produttivi è una condizione necessaria per l’inclusione sociale (differente dall’integrazione).

Sono consapevole che questo articolo è ricco di aspetti tecnici, ma credo fortemente che la loro comprensione sia necessaria per smontare una narrazione distorta sulla situazione attuale dell’Italia. Questa narrazione diventa un danno alla collettività in quanto devia il discorso dalla vera soluzione al problema. Quindi, farò il possibile per semplificare la descrizione dell’argomento al fine di renderlo comprensibile.

produttività

Prima di addentrarci in considerazioni di altro genere, riportiamo brevemente la definizione tecnica di produttività. È molto semplice: la produttività è il rapporto tra la quantità di prodotto ottenuta alla fine del processo produttivo (output) e la quantità di risorse necessarie in ingresso al processo (input) in un determinato intervallo di tempo. Quindi, sarà una funzione del tipo:

Produttività = Output/Input [1] 

Allora, dal punto di vista logico, possiamo dire che la produttività aumenta se:

  1. aumenta l’output a parità di input;
  2. a parità di output è necessario meno input.

Ovviamente, la produttività non varia se input e output variano in egual misura.

Quali sono gli input e gli output

L’input di qualunque processo di produzione di cui è possibile calcolare la produttività prevede in generale questi componenti:

  • materie prime;
  • mezzi di produzione;
  • mezzi ausiliari (energia);
  • capitale umano (forza lavorativa);

L’output è la quantità di prodotto venduta al consumatore finale. Quindi, non è sufficiente solamente produrre ma è anche necessario che tutto ciò che viene prodotto venga piazzato sul mercato. Se ciò non dovesse accadere, il valore dell’output non aumenterebbe, il che si tradurrebbe in un costo “non smaltito” dal processo produttivo.

Affinché si possa includere tutti questi fattori nell’analisi, si assume il denaro come forma generale del valore di input e output così da rendere il rapporto “uniforme”. Allora, sia input che output avranno un loro prezzo, di cui è importante conoscere le dinamiche della sua composizione.

Fattori che influiscono sulla formazione dei prezzi

Quando si fissa un prezzo per un determinato bene la prima domanda che ci si pone è “quanto ho speso per produrlo”? Sarebbe illogico fissare un prezzo che sia inferiore al costo di produzione, perché vorrebbe dire produrre per beneficenza.

Quindi, il primo vincolo fondamentale da tenere in considerazione è il costo sostenuto per tutte le componenti dell’input (materie prime, mezzi di produzione, energia, capitale umano). Questi elementi a loro volta sono stati fissati ad un prezzo determinato da ulteriori dinamiche a loro associate, il che rende il sistema relativamente instabile.

Se si trovasse il modo di azzerare alcuni costi di produzione, come può capitare in uno stato ricco di materie prime ed energia, oppure svalutando il capitale umano, si potrebbe fissare un prezzo relativamente basso rispetto agli altri presenti nel mercato. Questo fenomeno viene chiamato “dumping”, il quale consiste sostanzialmente nel fissare un prezzo troppo basso rispetto alla concorrenza. In questo caso, esiste un ulteriore vincolo fissato dalle istituzioni che regolano eventuali sanzioni (legislazioni anti-dumping) per gli agenti che importano usando tale strategia sleale.

Un altro fattore è la concorrenza: noto il costo di produzione che impone il limite inferiore, si definisce un margine in cui fissare il prezzo il cui limite superiore è (orientativamente) il prezzo medio di quel prodotto nel mercato. Quindi, per essere competitivi è necessario fissare il prezzo tendenzialmente ad un livello inferiore alla media del mercato.

Inoltre, bisogna tener conto della domanda: ogni area in cui si vuole vendere il prodotto ha un diverso potere d’acquisto. Ad esempio, il prezzo fissato in Italia sarà diverso da quello fissato in Germania dove il reddito medio è sicuramente più alto.

Infine, gli obiettivi di marketing sono fondamentali per la definizione del prezzo perché esso è anche un indicatore dell’immagine del brand. Per questa ragione, il prezzo finale può superare il limite superiore del prezzo medio del prodotto nel mercato, in quanto esso identifica il posizionamento del brand rispetto alle diverse fasce di clientela.

Dunque, se consideriamo tutti gli elementi dell’input più gli altri fattori che tengono conto delle dinamiche di mercato, contiamo ben otto fattori che concorrono alla formazione dei prezzi.

Allora, parlare di produttività quando esistono innumerevoli fattori che concorrono alla formazione dei prezzi, i quali possono essere perturbati da eventi imprevisti come crisi economiche o guerre, diventa estremamente difficile. Le parti sociali che usano questa parola banalizzandone il significato non fanno altro che alimentare la loro propaganda.

Valore aggiunto

La formazione del prezzo viene infine determinata dal margine aggiuntivo rispetto al valore dell’input, che viene detto valore aggiunto. Esso rappresenta sostanzialmente il guadagno lordo dell’imprenditore, su cui paga l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto). L’IVA viene calcolata sul prezzo finale del prodotto: quindi, per ottenere un guadagno, il prezzo totale dovrà essere almeno maggiore della somma tra i costi di produzione più l’IVA del prezzo che si vuole fare.

Ad esempio: se nella produzione si spendono 500€ e se si considera l’IVA al 22%, esisterà un prezzo finale che è uguale alla somma tra il costo di produzione e la sua IVA, ovvero:

Prezzo finale = Costo di produzione + 0,22*Prezzo finale (+Margine di guadagno=0) [2]

Risolvendo l’equazione si avrà:

Prezzo finale (Output) = Costo di produzione (Input)/0,78 [3]

Quindi, se il costo è 500€, il prezzo finale sarà 641,02€. Se il prodotto viene venduto a questo prezzo, non ci sarà nessun margine di guadagno per il produttore. Infatti:

IVA = Output*0,22 = 641,02*0,22 = 141,02 € [4]

Output – IVA = 641,02 – 141,02 = 500€ = Input [5]

Dunque, affinché ci sia un guadagno per il produttore, il prezzo finale minimo deve essere maggiore di 641,02 €.

Eliminando l’ipotesi di margine nullo e noto il costo di produzione, possiamo scrivere l’equazione del margine di guadagno:

Margine di guadagno = Output*0,78 – Input [6]

Come il Valore aggiunto influisce sulla produttività

Dal breve calcolo precedente si nota  che il margine di guadagno non dipende dall’IVA, ma è una porzione di prezzo finale decisa arbitrariamente dal produttore. Allora il produttore ha una sorta di potere sulla determinazione finale della produttività. Infatti, se proviamo ad estendere la formula [1] abbiamo:

Produttività = Output/Input = (Input + 0,22*Output + Margine)/Input [6] 

Sostituendo la definizione di produttività si avrà:

Produttività = (1+0,22*Produttività+Margine)/Input [7] 

Produttività = 1,28*(1 + Margine/Input) [8]

L’espressione [8] dimostra che la produttività aumenta se aumenta il margine netto per il produttore oppure se diminuisce il costo di produzione. Ricordando che l’input è funzione del costo del capitale umano (e quindi dei salari), si può dire che la produttività aumenta se gli imprenditori si arricchiscono mentre i lavoratori si impoveriscono.

La condizione limite (e paradossalmente ideale) per il concetto di produttività in relazione ad uno Stato è che i lavoratori abbiano guadagno zero e che l’incasso vada totalmente al produttore. Questa condizione non è ovviamente producibile, per cui la soluzione che viene adottata è spostare la produzione dove il costo del lavoro è estremamente basso (ad esempio Bangladesh).

Fattore tempo per la produttività

La definizione che abbiamo dato di produttività riportata nel secondo paragrafo tiene conto della base temporale. Ciò si rende necessario perché diversi intervalli di tempo ci consentono di fare il confronto per capire se la produttività è aumentata o diminuita. Quindi, la base temporale introduce una nuova variabile nella valutazione della produttività: ovvero quella della quantità di prodotto.

Come abbiamo spiegato in un altro articolo, la dinamica di formazione del plusvalore permette di comprendere come il valore aggiunto aumenta all’aumentare di quantità di prodotto.

Riprendiamo l’esempio in cui abbiamo assunto il costo di produzione di 500€. Questo costo include tutti i fattori menzionati in precedenza, ma in questa fase ci interessa focalizzarci sul costo del lavoro. Perché? Perché il lavoro è l’unico componente la cui retribuzione è fissata su base temporale. Quindi, la variazione del costo del lavoro in funzione del tempo influisce direttamente sulla produttività.

Ipotizzando che tutti gli altri fattori cubano un valore di 400€, il costo del lavoro relativo ad un singolo prodotto sarà 100€. Non è stato detto, però, quanto tempo è necessario per la produzione. Se un lavoratore guadagna 1500€ al mese, vuol dire che il singolo lavoratore sarà in grado di produrre 15 pezzi. Quindi, se in qualche modo si riuscisse a raddoppiare la quantità prodotta nello stesso tempo, ci sarebbe una produzione di 30 pezzi in un mese, il che implicherebbe un costo del lavoro per prezzo dimezzato, cioè 50€. Dunque, l’input totale varrebbe 350€ e, considerando la formula [8], la produttività risulterebbe aumentata a parità di prezzo di vendita.

Lo stesso risultato si otterrebbe se il tempo di lavoro aumentasse a parità di retribuzione e intensità del lavoro oppure se aumentasse l’intensità a parità di tempo e retribuzione. In sostanza, la caratterizzazione della produttività della forza lavorativa è data da due fattori: dalla produttività del capitale, associabile allo sviluppo tecnologico, e dalla produttività del lavoro.

Cosa dicono i dati

Secondo dati ISTAT, nell’intervallo di tempo 2014-2020, la produttività del capitale in Italia è calata dell’1,1% in media all’anno. Invece, la produttività del lavoro è cresciuta dell’1,2% in media all’anno (Germania, Francia e Spagna hanno fatto peggio, rispettivamente 1%, 0,5% e 0% in media annua).

È evidente che la retorica sugli italiani che non hanno voglia di lavorare è falsa e fuorviante, soprattutto considerando che l’Italia è l’unico paese europeo in cui gli stipendi sono diminuiti (del 2,9%) negli ultimi 30 anni. Il problema non è delle persone ma delle infrastrutture messe a loro disposizione che non gli consentono di essere produttive come i lavoratori degli altri paesi europei. Ciò che più dà da pensare è che tale retorica è costruita dai rappresentanti di coloro che dovrebbero investire per far sì che aumenti la produttività legata allo sviluppo tecnologico.