L’intensità del mobbing può oscillare tra atti incivili fino ad arrivare a forme di aggressione più gravi quali la violenza vera e propria. La frequenza del mobbing è tendenzialmente costante e continua.

Esso rientra all’interno dei comportamenti definiti “comportamenti lavorativi controproduttivi”. Questi consistono in comportamenti sul luogo di lavoro connotati da  aggressione, ritorsione, vendetta e devianza.

Caratteristiche del mobbing

mobbing

Per comprendere quali siano le principali caratteristiche del mobbing, utilizzeremo la definizione di Einarsen et al:

“Mobbing al lavoro significa molestare, offendere, escludere socialmente qualcuno o influenzare negativamente i compiti lavorativi.
Per poter definire mobbing una particolare attività è necessario che si verifichi regolarmente e ripetutamente. È un processo progressivo, nel corso del quale una persona si trova a essere in una posizione di inferiorità ed è bersaglio di sistematiche azioni sociali negative. Un conflitto non può essere definito mobbing se l’incidente è un evento isolato, o se le due parti coinvolte nel conflitto possiedono una capacità difensiva analoga”.

Quindi, le caratteristiche che emergono sono frequenza, durata, ostilità e squilibrio di potere.

La frequenza fa riferimento al numero di comportamenti negativi ripetuti nell’arco di una settimana. La soglia minima su cui gli studiosi sembrano essere concordi è di una o due volte a settimana.

La durata complessiva, ovvero dall’insorgenza del primo comportamento negativo, deve essere almeno di sei mesi (o dodici mesi).

L’ostilità denota l’accezione negativa dei comportamenti reiterati.

Lo squilibrio di potere fa riferimento alle posizioni verticali fra vittima e mobber. Tale disparità non è solo legata alla gerarchia, ma può anche manifestarsi come legata al ruolo sociale e all’aspetto fisico.

Modello di Leymann e di Ege

Uno dei primi ad interessarsi del fenomeno di mobbing fu Leymann nel 1990. Infatti, da allora le ricerche sull’argomento sono incrementate in modo esponenziale in diverse parti del mondo. 

Tutt’oggi è il modello di Leymann uno dei principali a cui si fa riferimento. 

Questo identifica quattro fasi del fenomeno, definite: conflitto quotidiano; inizio del mobbing;  errori ed abusi da parte dell’ente risorse umane; ed esclusione dal mondo del lavoro. 

La pecca nel modello di Leymann è l’eccessiva contestualità nei Paesi nordeuropei.

Infatti, molti ricercatori hanno riscontrato difficoltà nell’applicazione di tale modello in contesti diversi. Fra questi vi è Ege, il quale voleva studiare il mobbing nel contesto sociale italiano. 

La gestione dei conflitti in Italia sul posto di lavoro è molto diversa dai Paesi del Nord. Infatti, nel contesto italiano, risulta essere “normale” la continua conflittualità sul posto di lavoro. Viene considerata come una parte fisiologica del normale processo produttivo.

Allora, per tenere in considerazione lo stato di partenza del Paese in cui si intende rilevare il mobbing, Edge ha apportato un aggiunta al modello di Leymann. Tale aggiunta consisterebbe in una condizione zero.

La condizione zero non fa parte delle fasi del mobbing, ma le precede. Questa avrebbe lo scopo di andare ad identificare lo stato di conflittualità fisiologica tipica del Paese di riferimento. 

Quindi, possiamo comprendere quanto utilizzare criteri universali per tutti i contesti risulterebbe inefficace.

Influenza del contesto

L’influenza del contesto è stata tenuta in considerazione dai ricercatori. Essi hanno identificato tre dimensioni culturali che ne influenzano il tasso di incidenza.

Tali dimensioni sono la distanza di potere, la mascolinità vs. femminilità, l’individualismo vs. il collettivismo.

Nelle culture dove la distanza di potere fra mobber e vittima è più percepita, il tasso di incidenza è più elevato. Per esempio: di fronte ad un fenomeno di mobbing, si pone attenzione alla posizione nettamente superiore del mobber (dirigente) rispetto a quello della vittima (semplice operaio). In una cultura dove vi è bassa percezione di distanza di potere, non avranno importanza le differenze gerarchiche, e non, fra vittima e mobber.

Inoltre, in culture basate sulla femminilità si dà maggiore importanza alle relazioni interpersonali. Per tale motivi, comportamenti aggressivi ed abusi verranno meno tollerati. Di conseguenza, fenomeni come il mobbing sono meno sviluppati. Vale il contrario per le culture basate sulla mascolinità (ad esempio l’Italia).

Infine, culture individualiste spingeranno alla competizione e alla sopraffazione. Per tale motivo il mobbing sarà altamente sviluppato. Ne sono un esempio Stati Uniti e Inghilterra.

Ipotesi su origine del mobbing

Alcuni studiosi si sono posti l’interrogativo sul cosa desse origine al fenomeno del mobbing.

Da questa domanda sono nate tre ipotesi principali: l’ipotesi disposizionale; quella sociale e quella situazionale.

Ipotesi disposizionale

L’ipotesi disposizionale prevede l’origine del mobbing in base alle caratteristiche di personalità del mobber e della vittima. Così facendo è stato possibile identificare dei profili tipici di entrambi i lati.

In generale, il mobber è di sesso maschile, svolge attività ad alto contenuto stressogeno. In particolare è un lavoro molto esteso ma con poca possibilità di presa di decisione. Molto spesso vive una situazione lavorativa insicura e poco stabile. Egli gode di una bassa autostima, un’eccessiva invidia nei confronti altrui e un deficit nelle competenze sociali.

La vittima, invece, è caratterizzata da nevroticismo, impulsività, introversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e autostima. Però ha la tendenza a soffrire di ansia, paura, tristezza e rabbia. Allora, per tutti questi fattori, le vittime vengono percepite come soggetti vulnerabili. Le ricerche sulle caratteristiche anagrafiche hanno rilevato una maggior predisposizione delle donne con maggiore anzianità lavorativa e le minoranze etniche.

Ipotesi sociale

L’ipotesi sociale prevede che il mobbing venga influenzato in termini di natura, forma e frequenza dalle dinamiche del gruppo di lavoro. In particolare, l’eccessiva competizione interorganizzativa e le politiche centrate sul taglio dei costi aumenterebbero i comportamenti aggressivi. Inoltre, la mescolanza etnica, culturale e di età che richiede un’ ambiente globalizzato porterebbe a più scontri. Secondo questa ipotesi, sono proprio le minoranze a ricadere nel ruolo di vittime.

Altri fattori che incidono sono il tipo di comunicazione, la gestione relazionale e l’autonomia. Paradossalmente, il mobbing si presenta più raramente in gruppi con poca autonomia. Ciò perché questi hanno meno stress e pressioni di chi esercita in modo autonomo.

Ipotesi situazionale

L’ultima ipotesi è quella tutt’oggi più studiata. L’ipotesi situazionale si basa sul presupposto che il mobbing si manifesti in risposta a un organizzazione delle attività lavorative non consona. Nello specifico sono state rintracciate quattro principali categorie di fattori che vanno ad influire su tale fenomeno.

Il primo fra questi è lo stile di leadership e la gestione delle risorse umane. Il mobbing è molto frequente in correlazione con uno stile di leadership tendente all’abuso di potere o all’eccessiva passività. Una leadership debole non è in grado di gestire le conflittualità, permettendo di continuare i comportamenti aggressivi poiché impuniti.

Nel caso opposto, il clima organizzativo abusante e competitivo non farebbe altro che sollecitare il mobbing.

Le politiche organizzative lo influenzano direttamente poiché sono loro stesse a definire quali comportamenti sono accettabili e quali no. Infatti, nel caso in cui queste politiche non siano chiare, diventa difficile tenere sotto controllo comportamenti anomali e punirli.

L’ultimo elemento sono le dimensioni situazionali. Queste possono essere il cambio di lavoro, lavori frammentati e ripetitivi, e strutture che incoraggiano la competizione.

Conseguenze

Oltre a danni sul piano fisico e psicologico, l’esposizione prolungata a fenomeni di mobbing porta ad una bassa performance sul posto di lavoro. 

Nelle fasi iniziali è possibile riscontrare ansia, depressione, disturbi del sonno e dell’umore fino ad arrivare ai casi estremi di suicidio. 

Da un punto di vista organizzativo questo si traduce in assenteismo, turnover, diminuzione della produttività, abbandono del posto di lavoro e aumento dei costi legati all’assistenza medica. Inoltre, sulle spalle dell’azienda ricadranno le spese legali derivanti dai comportamenti di mobbing. 

Conclusioni

Come abbiamo visto anche nell’articolo sul Lavorare bene, il benessere lavorativo non è un optional. Un’azienda efficace ed intelligente da un punto di vista di marketing (e non solo) sa che i propri dipendenti devono essere nelle migliori condizioni possibili per dare dei buoni risultati. 

Risultati che poi si traducono in un aumento della produttività e buon rendimento aziendale. Questi studi non sono così recenti da potersi permettere di non averli notati. Quindi, perchè nulla (o quasi) è cambiato? 

Una delle possibili risposte a questa domanda è in relazione alla percezione della vittima al mobbing: non tutti si accorgono di essere vittime di mobbing. Uno studio ha rilevato che i lavoratori con un titolo di studio più elevato tendono a percepire con maggiore sensibilità i comportamenti anomali. Però tali percezioni vengono declassate successivamente. Da una parte, la cultura in cui siamo immersi tende a sminuire le sofferenze psicologiche in ambito lavorativo. Dall’altra, la persona tende a sminuire tali percezioni per mantenere un apparente equilibrio psicofisico e per paura di affrontare uno scontro con i dirigenti col rischio di perdere il lavoro.

Tutto ciò significa che pochi sono capaci di accorgersi del fenomeno di mobbing. Essa è una sensibilità poco sviluppata e che difficilmente trova spazio di ascolto in una cultura che rinnega la sofferenza psichica. Tale sofferenza non è nulla rispetto all’orgoglio della posizione lavorativa che si occupa!