La competizione, nel mercato e non solo, presuppone che ci sia libera concorrenza, ovvero che non ci siano enti in grado di ostacolare o compromettere l’andamento della competizione.
In questo articolo spiegheremo nel dettaglio la competizione, che rappresenta il propulsore fondativo delle società in cui vige il libero mercato.
Significato di competizione e uso nel linguaggio
Per capire cos’è la competizione, il primo passo è individuare il significato di tale parola. Infatti, l’etimologia della parola competere deriva dal latino e si compone di com (particella con, che descrive la tendenza ad unirsi) e pètere (andare verso). Il dizionario Treccani parla di “gara, lotta, contrasto fra persone o gruppi che cercano di superarsi, di conquistare un primato”, mentre nel linguaggio economico fa riferimento alla parola concorrenza, il cui significato etimologico è analogo a quello di competere.
Allora, la competizione si riferisce all’unione nella lotta, ovvero che una serie di soggetti convergono e convengono di essere dei partecipanti ad una gara (competizione, appunto) che deve stabilire il primato. Tale primato, nel linguaggio economico, definisce il soggetto che detiene la quota maggioritaria di mercato, il che si traduce in maggiore potere economico.
Inoltre, dato che dal potere economico deriva una maggiore possibilità di agire in senso generale, risulta che tale potere sconfina anche nella sfera sociale, determinando una differenziazione tra “forti” e “deboli” che sta alla radice della diseguaglianza.
Nel linguaggio della società occidentale, la parola “competizione” viene usata molto frequentemente anche in ambiti che non sono strettamente economici. Infatti, essere competitivi è sinonimo di efficienza, per cui una persona competente non è solo chi sa qualcosa di un determinato ambito, ma risulta produttiva in quella determinata sfera.
Allora, è importante capire quali sono le caratteristiche e gli effetti di una cultura della competizione così radicata nel nostro linguaggio, perché “non solo pensiamo usando parole ma usando parole compiamo azioni” (Casiccia, 20).
Concorrere nel conflitto
Nel linguaggio proprio del libero mercato, l’idea di competizione viene spesso associata a quella di scontro, lotta, battaglia. Anche la cooperazione è stata assorbita e resa funzionale alla dinamica conflittuale. Infatti, chi concorre vuole vincere davvero: dato che si tratta di una gara tra rivali, vincere il rivale significa sconfiggerlo (Casiccia, 25).
Allora, il mondo in cui viviamo, dagli individui alle imprese, dai singoli stati alle potenze continentali, è permeato da relazioni orientate al conflitto e alla rivalità. Infatti, la competizione stabilisce, attraverso il concetto di “merito”, la selezione del “più adatto”, lasciando spazio a coloro che sono stati maggiormente concorrenziali.
Tuttavia, proprio l’essenza del conflitto e dell’annullamento del più debole costituisce la principale contraddizione della competizione. Se l’obiettivo della competizione è di sconfiggere i rivali, ciò implica che il sistema rischia di passare a essere da concorrenziale a monopolistico. Quindi, l’eccesso di competizione può portare alla fine della competizione stessa.
Effetti psicologici della competizione
Ciò che è stato osservato dal sociologo Zygmunt Bauman è che tra le persone comuni siano venuti a mancare una serie di comportamenti altruistici e di identità collettive, indebolendo il senso di comunità. Infatti, è facile riscontrare nel sentire comune una maggiore tensione tra singoli lavoratori o fra gruppi di diversa nazionalità.
Inoltre, la sensazione di sentirsi costantemente sotto minaccia, di percepire una continua incertezza e ansia da prestazione, può tradursi in patologie psichiche e di comportamento, quali ansia, depressione, burnout e, nei casi più gravi, in suicidio.
L’eccesso di competizione non solo può generare effetti negativi nel fatto che venga mantenuta in essere sul lungo periodo, ma può risultare anche in rinuncia e accettazione della sconfitta. Infatti, alcune persone entrano in una condizione di emarginazione e di autoisolamento, con tutte le conseguenze patologiche del caso. Oppure, crea soggetti relativamente sani ma non autosufficienti (i cosiddetti NEET, Not engaged in Education, Employment or Training, ovvero persone inattive) che pesano sia sul bilancio familiare che su quello statale.
Ipercompetizione e scarsità
La natura della competizione non si fonda solo sulla spinta istintiva a voler raggiungere il primato, il quale caratterizza una posizione di maggiore potere inteso come possibilità di agire. Infatti, l’essenza primordiale della competizione, l’inconscia tendenza a dimostrare la propria forza, dipende in larga misura da un principio apparentemente banale: la scarsità.
Dunque, la lotta non è indotta semplicemente dalla volontà di voler fare una gara dal carattere ludico, ma dalla necessità e dalla spinta alla sopravvivenza: qualunque animale per poter sopravvivere deve cacciare per assicurarsi il nutrimento. Se il nutrimento non è sufficiente per tutti, allora bisogna sconfiggere chi vuole sottrarcelo.
Questo principio è ben descritto dalla rappresentazione cinematografica spagnola “Il buco”. Una tavola ricca di cibo scende dal primo al trecentotrentatreesimo piano, ed ognuno di essi è abitato da due persone. Allora, i primi da cui passa il tavolo saranno maggiormente avvantaggiati e potranno godere di molte leccornie. Più il tavolo scende, più il cibo scarseggia, più affiora la natura aggressiva dell’essere umano, il quale è pronto a uccidere per accaparrarsi il nutrimento sufficiente a mantenerlo in vita.
L'immigrato che ruba il lavoro
La realtà non è come “Il buco”, ma molti fenomeni partono dalla stessa radice: se i posti di lavoro tendono a scarseggiare, gli individui vedono gli altri soggetti come loro competitors, per cui non potrà esserci solidarietà, ma dominerà la volontà di trovare il modo di fregare il prossimo.
Un esempio degli effetti e della naturale conseguenza di queste dinamiche applicate alla relazione tra politica ed economia è la vittoria dei partiti conservatori che fanno una propaganda denigratoria contro gli immigrati. Essi, arrivando in condizioni poco dignitose, sono disposte a fare dei lavori a basso costo, che gli italiani non sono disposti a fare (neanche a pagamento). Dunque, la propaganda diffonde la rappresentazione sociale dell’immigrato poco integrato e che commette reati, e parallelamente l’italiano lo vede come “qualcuno che gli sta rubando il lavoro”. Quindi, la motivazione principale dell’espulsione degli immigrati non è la loro propagandata aggressività, ma perché sono competitors che hanno maggiore probabilità di vincere la lotta per la scarsità del lavoro.
Conclusione
Se non ci fossero gli effetti sociali e psicologici il cui epilogo può risultare drammatico, la competizione gode di caratteristiche che incentivano il progresso della società. Il punto è che, per la sua natura, tende a creare spaccature tra i concorrenti, crea necessariamente vincitori e vinti. Una lotta che genera ulteriore lotta.
La competizione non c’è solo tra individui, ma anche a livello geopolitico: la scarsità di risorse non esclude degenerazioni verso guerre devastanti. In una fase storica in cui gli armamenti hanno raggiunto potenziali enormi, neanche i vincitori riuscirebbero a sopravvivere. Quindi, l’ultra-competizione non giova a nessuno.
Tornando al livello individuale, la competizione dovrebbe prevedere una sorta di “diritto al fallimento”: il fallito, lo sconfitto, non deve essere definitivamente escluso dalla gara, ma bisogna dargli la possibilità di non perdere la dignità, di rimanere integrato e di riprendersi agevolmente per tornare a correre. L’idea è di spogliare la parola “fallito” del senso di ribrezzo e della connotazione negativa: fallire fa parte del gioco.
